Neurology: pubblicato studio che mostra come il costo di un farmaco può influire sull’efficacia della terapia nei pazienti con Parkinson - Neurology: pubblicato studio che mostra come il costo di un farmaco può influire sull’efficacia della terapia nei pazienti con Parkinson
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Neurology: pubblicato studio che mostra come il costo di un farmaco può influire sull’efficacia della terapia nei pazienti con Parkinson
La percezione del costo di un farmaco e le aspettative di un paziente con malattia di Parkinson possono influenzare la risposta alla terapia che sta seguendo, anche se sta assumendo una semplice soluzione salina. È l’effetto placebo, argomento molto discusso e fenomeno già noto nelle persone affette da morbo di Parkinson, il cui ruolo è stato confermato in questi giorni dai risultati di uno studio prospettico in doppio cieco, condotto dall’Università di Cincinnati (Ohio - USA).
Secondo gli studiosi, coordinati da Alberto Espay, pensare di assumere un farmaco costoso può migliorare di più le condizioni motorie del paziente rispetto a quanto accade quando si assume un farmaco presentato come quello più economico. La ricerca, pubblicata sulla rivista “Neurology” dell’American Academy of Neurology, ha coinvolto 12 pazienti affetti da Parkinson, ai quali era stato detto che avrebbero ricevuto due formulazioni dello stesso farmaco, in grado di potenziare la produzione di dopamina, neurotrasmettitore che risulta presente in quantità insufficiente nei pazienti colpiti da Parkinson.
I ricercatori avevano spiegato ai pazienti che si trattava di due formulazioni aventi la stessa efficacia, differenti solo in relazione al prezzo: 100 dollari a dose per la formulazione presentata come più economica, 1.500 dollari a dose per la formulazione più cara. Pur avendo ricevuto tutti, in realtà, una soluzione salina (senza alcun principio attivo), dai test effettuati prima e dopo ogni somministrazione è emerso che anche nei placebo il prezzo fa la differenza. In particolare, misurando i benefici apportati dalla terapia sui sintomi motori dei pazienti, gli studiosi hanno scoperto che, in media, l’efficacia del placebo risultava quasi doppia in coloro che avevano ricevuto prima il “falso” farmaco più costoso, rispetto al gruppo cui era stata iniettata prima la versione economica. In entrambi i casi l’efficacia è risultata minore di quella del farmaco utilizzato normalmente dai pazienti (levodopa), ma nel gruppo che aveva assunto prima il placebo più costoso i benefici si avvicinavano notevolmente a quelli del medicinale vero.
L’uso del placebo costituisce ormai un importante sfida per lo sviluppo di farmaci, in particolare per quelli legati al Sistema Nervoso Centrale[1]. Nell’ambito della schizofrenia, ad esempio, negli studi recenti la differenza in termini di efficacia tra trattamenti attivi e placebo tende a ridursi rispetto alle differenze registrate in passato. Il placebo è un effetto che si sviluppa nel cervello, che reagisce alle parole del medico, alle impressioni, alle attese e alle speranze del paziente. In talune aree, esso produce sostanze proprie dell’organismo, che possono legarsi alle cellule nervose e modificare i sintomi avvertiti dalla persona. Il fenomeno, dunque, non riguarda solo i pazienti con il morbo di Parkinson, ma è bene ricordare che in queste persone la risposta può essere più forte perché la malattia diminuisce la quantità di dopamina nel cervello, mentre l’effetto placebo è noto proprio per la capacità di aumentare il rilascio di questa sostanza cerebrale, in grado di influire sul senso di miglioramento dei sintomi dei pazienti.
“Se riusciremo a mettere a punto strategie che sfruttino la risposta al placebo per migliorare i benefici dei trattamenti farmacologici, potremo massimizzare il risultato, riducendo il dosaggio e gli effetti collaterali”, ha commentato Espay, auspicando che la ricerca clinica possa presto “sfruttare” al meglio le aspettative dei pazienti per migliorare l’efficacia dei farmaci.
Le implicazioni etiche legate al ricorso al placebo sono al centro del dibattito della medicina moderna, dal problema di dire la verità e del consenso informato fino alla centralità della buona relazione fra medico e paziente. Diversi studi hanno dimostrato che i medici che ascoltano i loro pazienti e li informano in maniera accurata si trovano a somministrare meno medicinali. In questo senso, è fondamentale l’impegno del medico nel fornire al paziente informazioni dettagliate sui potenziali benefici di un medicinale, che a loro volta potrebbero migliorare l’efficacia che dimostrerà su di loro. Lo studio dell’effetto placebo è pertanto importante anche per comprendere meglio i meccanismi che sono alla base della relazione medico-paziente.
La comprensione dei meccanismi sia psicologici sia biologici dell’effetto placebo ha dato una forte spinta all’approccio secondo cui non è sufficiente curare una malattia, ma è necessario parallelamente prendersi cura del paziente dal punto di vista psicologico. Il concetto di placebo negli ultimi anni ha finito così per incorporare ogni fattore potenzialmente incidente sui processi di guarigione non legato a una specifica azione farmacologica, dagli effetti terapeutici indotti dal sentirsi oggetto di cure al potere curativo dello stesso esplicarsi dell’ “arte” medica[2]. Un modo di pensare che ha dato origine a una vera e propria neurobiologia dell’interazione medico-paziente, in cui il cervello di quest’ultimo subisce cambiamenti plastici durante questa complessa interazione sociale[3].
Leggi lo studio condotto dall’Università di Cincinnati su “Neurology”
[1] L. Pani, The use of placebo in randomized controlled trials in schizophrenia: a regulator’s view, Schizophrenia Research - Volume 153 - Supplement 1 - April, 2014.
[2] L. Pani, S. Canali, Emozioni e malattia. Dall'evoluzione biologica al tramonto del pensiero psicosomatico, Milano, Bruno Mondadori, 2003.
[3] F. Benedetti, The patient’s brain, Oxford 2010; F. Benedetti, Placebo Effects: understanding the mechanisms in health and disease, Seconda Edizione, Oxford University Press. 2014).
Pubblicato il: 05 febbraio 2015