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L'ivabradina nella coronaropatia stabile senza insufficienza cardiaca: i risultati dello studio SIGNIFY - L'ivabradina nella coronaropatia stabile senza insufficienza cardiaca: i risultati dello studio SIGNIFY

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L'ivabradina nella coronaropatia stabile senza insufficienza cardiaca: i risultati dello studio SIGNIFY

L'ivabradina, in aggiunta alla terapia medica raccomandata dalle linee guida, non ha migliorato l'outcome nei pazienti con malattia coronarica stabile senza insufficienza cardiaca nello studio SIGNIFY i cui risultati sono stati presentati da Kim Fox e colleghi in un articolo pubblicato sul The New England Journal of Medicines. “Studi osservazionali precedenti – scrivono gli Autori – hanno dimostrato che un'elevata frequenza cardiaca è associata ad un più alto rischio di eventi cardiovascolari nelle popolazioni con coronaropatia stabile. La mancanza di beneficio dell’ivabradina nello studio SIGNIFY contrasta con i risultati di precedenti analisi post hoc con questa molecola che suggerivano un miglioramento degli outcome nei pazienti con coronaropatia stabile. Inoltre, nei pazienti con insufficienza cardiaca, la riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina ha dimostrato di migliorare i risultati clinici, al di là dei miglioramenti osservati con i beta –bloccanti”.

Una frequenza cardiaca elevata è un marcatore consolidato di rischio cardiovascolare. Analisi precedenti hanno suggerito che l'ivabradina, un agente che riduce la frequenza cardiaca, può migliorare gli esiti nei pazienti con malattia coronarica stabile, disfunzione ventricolare sinistra e una frequenza cardiaca di 70 battiti al minuto o più. I ricercatori di SIGNIFY hanno condotto uno studio in doppio cieco, randomizzato, controllato con placebo con l’ivabradina in aggiunta alla terapia base standard, in 19.102 pazienti con malattia coronarica stabile senza insufficienza cardiaca clinica e con una frequenza cardiaca di 70 battiti al minuto o più (tra cui 12.049 pazienti con angina che limita l’attività fisica [classe ≥II della scala Canadian Cardiovascular Society, che va da I a IV, con le classi superiori che indicano maggiori limitazioni all'attività fisica a causa dell’angina]). Hanno assegnato random i pazienti a placebo o a ivabradina, alla dose massima di 10 mg due volte al giorno, con la dose regolata per raggiungere una frequenza cardiaca da 55 a 60 battiti al minuto. L'end point primario composito era la morte per cause cardiovascolari o l’infarto del miocardico non fatale.

A 3 mesi, la frequenza cardiaca media (± SD) dei pazienti era di 60,7 ± 9,0 battiti al minuto nel gruppo trattato con ivabradina rispetto a 70,6 ± 10,1 battiti al minuto nel gruppo che aveva ricevuto placebo. L'incidenza della bradicardia e della fibrillazione atriale era quindi più alta con l’ivabradina rispetto al placebo, con una differenza tra i due gruppi di circa 10 battiti al minuto. Dopo un follow-up mediano di 27,8 mesi, non vi era alcuna differenza significativa tra il gruppo con ivabradina e il gruppo con placebo nell'incidenza dell'end point primario (rispettivamente 6,8% e 6,4%; hazard ratio, 1,08, 95% intervallo di confidenza, 0,96-1,20, P = 0.20), né vi erano differenze significative nell'incidenza di morte per cause cardiovascolari e infarto miocardico non fatale. L'ivabradina è stata associata ad un aumento nell'incidenza dell'end point primario tra i pazienti con angina che limita le attività fisiche, ma non tra quelli senza angina che limita le attività (p = 0.02 per interazione). L'incidenza della bradicardia è stata più alta con l’ivabradina rispetto al placebo (18,0% vs 2,3%, P <0.001).

Tra i pazienti con coronaropatia stabile senza insufficienza cardiaca clinica – hanno concluso gli Autori – l'aggiunta di ivabradina alla terapia di base standard per ridurre la frequenza cardiaca non migliora i risultati.

“Ci sono una serie di ipotesi per spiegare la mancanza di beneficio dell’ivabradina in questo studio. È possibile che l'ivabradina riduca troppo la frequenza cardiaca o che la relazione tra frequenza cardiaca e l’outcome abbia una curva a forma di J. L'ivabradina può avere effetti indesiderati (ad esempio, la regolazione delle dosi delle altre molecole che riducono la frequenza cardiaca) che possono aver influenzato i potenziali benefici della riduzione della frequenza cardiaca con l’ivabradina. Tuttavia, l'uso e il dosaggio dei beta-bloccanti dopo la randomizzazione differivano solo leggermente tra i pazienti che avevano ricevuto l'ivabradina e quelli che avevano ricevuto il placebo. È anche possibile – aggiungono gli Autori – che gli agenti antianginosi che riducono la frequenza cardiaca non abbiano alcun effetto sugli outcome nei pazienti con malattia coronarica stabile. Sebbene vi sia una evidenza storica di un beneficio dei beta-bloccanti dopo infarto del miocardio, ci sono poche evidenze attuali del loro vantaggio rispetto ad outcome clinici ardui nei pazienti che hanno malattia coronarica stabile senza disfunzione ventricolare sinistra. In effetti, una recente analisi osservazionale ha suggerito l’opposto. Ciò contrasta con i risultati dei trial che hanno testato gli effetti dei beta-bloccanti o dell’ivabradina in pazienti con insufficienza cardiaca sistolica, inclusi quelli con insufficienza cardiaca di origine ischemica.       
Il beneficio osservato con la riduzione della frequenza cardiaca in pazienti con insufficienza cardiaca, ma non in quelli con malattia coronarica stabile può riflettere il fatto che una frequenza cardiaca elevata è dovuta a meccanismi fisiopatologici diversi in queste due condizioni – sostengono Fox e colleghi – Nei pazienti con insufficienza cardiaca, vi è l'attivazione neuro-ormonale, che di per sé porta a un rimodellamento ventricolare, un ulteriore disfunzione ventricolare sinistra e un circolo vizioso di declino. Al contrario, nella malattia coronarica stabile senza disfunzione ventricolare sinistra non vi è alcuna attivazione neuro-ormonale.   
C'è stata una significativa interazione tra l'effetto dell’ivabradina e la presenza di angina (CCS classe ≥II) al basale – commentano ancora gli Autori – In questo sottogruppo, l'ivabradina ha aumentato il rischio assoluto dell’endpoint primario composito di morte per cause cardiovascolari o infarto miocardico non fatale di 1,1 punti percentuali. La spiegazione di questo risultato sorprendente è incerta – scrivono Fox e colleghi – anche se dovrebbe essere trattata con cautela in quanto i risultati delle analisi di efficacia primaria non sono stati significativi.     
In conclusione, i risultati di SIGNIFY indicano che l'ivabradina, in aggiunta alla terapia medica raccomandata dalle linee guida, non ha migliorato l'outcome nei pazienti con malattia coronarica stabile senza insufficienza cardiaca clinica. Ci sono segnali di un aumento del rischio di eventi cardiovascolari tra i pazienti con angina di classe CCS II o superiore. Dato che l'effetto cardiovascolare primario dell’ivabradina è ridurre la frequenza cardiaca, questi risultati – concludono gli Investigators di SIGNIFY – suggeriscono che un'elevata frequenza cardiaca è solo un marcatore di rischio - ma non un fattore determinante modificabile dei risultati - in pazienti che hanno malattia coronarica stabile senza insufficienza cardiaca clinica”.


Published on: 02 September 2014

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