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BMJ: su nuove procedure innovative per combattere l’infezione da C. Difficile occorrono più evidenze e controlli

L’infezione da Clostridium difficile è un fenomeno prevalente nelle strutture sanitarie in tutto il mondo sviluppato, ma in altri casi si possono verificare anche grandi epidemie. Questa infezione si verifica tipicamente in pazienti anziani con comorbilità la cui flora intestinale è stata fortemente alterata da un precedente trattamento con antibiotici. Le infezioni da C. difficile, colpiscono ogni anno fino a 3.000 persone nel Regno Unito e 100.000 negli Stati Uniti, nei quali, secondo le ultime stime sono responsabili di circa 14.000 decessi. Si tratta di patologie particolarmente complesse perché circa un quarto dei pazienti sperimenta una recidiva a seguito di una lieve infezione iniziale, dal momento che il trattamento con antibiotici distrugge la diversità dei microbi intestinali normali e permette al batterio di prosperare.

Tim Spector, professore di epidemiologia genetica al King’s College di Londra, e Rob Knight, professore di pediatria e ingegneria informatica presso l'Università della California di San Diego, hanno firmato un editoriale sul BMJ per analizzare lo stato dell’arte del trapianto del microbiota fecale, un trattamento sempre più diffuso per le infezioni da C. Difficile che necessita, a detta degli autori, di ancora maggiore preparazione e approfondimenti sugli effetti a lungo termine.

La terapia standard per le infezioni da C. Difficile è rappresentata da antibiotici come la vancomicina e il metronidazolo, con o senza lavaggio intestinale o probiotici. Tuttavia, una meta-analisi che ha incluso due studi randomizzati controllati e diverse serie di casi che hanno incluso 516 pazienti hanno registrato un tasso di successo dell’85% con il trapianto di microbiota fecale rispetto al 20% di quello con la vancomicina. Un terzo recente studio randomizzato, rendono noto Spector e Knight, è stato interrotto precocemente a causa della schiacciante superiorità del trapianto fecale, con il tasso di successo del 90% rispetto al 26% per la vancomicina. Il trapianto si effettua mediante l’isolamento della flora  batterica di un donatore sano attraverso procedure microbiologiche di purificazione. Il liquido ottenuto viene poi somministrato al ricevente per bocca o per via rettale. Finora, secondo gli autori, questi trapianti sembrano relativamente sicuri nei pazienti immunocompromessi e anziani.

Oggi sono più di 500 i centri statunitensi che offrono questa terapia, approvata dalla American Academy of Gastroenterology e dalla European Society of Microbiology and Infectious Diseases. Mentre i regolatori europei e australiani devono ancora prendere una decisione” scrivono ancora gli autori “il NICE l’ha già approvato l'anno scorso. L’agenzia regolatoria del Regno Unito (MHRA) ha temporaneamente classificato i trapianti fecali come medicinali. La cautela è comprensibile perché ancora non esistono buoni dati a lungo termine o provenienti da registri, anche se sono in corso dei tentativi. Tuttavia, la letteratura disponibile suggerisce che gli eventi avversi sono rari”.

Il trapianto fecale è inoltre in fase di sperimentazione per il trattamento di altre patologie comuni come l'obesità, il diabete, la sindrome del colon irritabile e la colite.

Tuttavia, secondo Spector e Knight, un uso più ampio del trapianto fecale dovrebbe essere “maneggiato con cura”.

Oltre agli evidenti rischi di infezione (ridotta dallo screening)” affermano gli autori “ci sono rischi potenziali più a lungo termine, ed esistono due relazioni aneddotiche di pazienti con C. difficile guariti dalla loro malattia, ma che in seguito hanno registrato un notevole aumento di peso, forse a causa del microbiota dei loro donatori in sovrappeso. Ancora più preoccupante è la potenziale trasmissione di ansia e depressione. Anche se ciò non è stato provato negli esseri umani, i microbi intestinali sono in grado di produrre una vasta gamma di sostanze neurochimiche, tra cui la dopamina, l'acido γ-amminobutirrico e la serotonina. I microbi trasferiti in un nuovo ospite potrebbero pertanto causare uno squilibrio nei livelli di questi neurotrasmettitori. Questi rischi suggeriscono che i trapianti fecali debbano essere attentamente monitorati e i donatori sottoposti a follow up, ma pur con tutte questi caveat è chiaramente meglio di altri antibiotici per il trattamento di condizioni come l’infezione da C difficile”.

Secondo gli autori le affermazioni a sostegno dell’utilità di questa procedura come terapia per “molte patologie” sono probabilmente troppo ottimistiche.  “L'evidenza attuale”  argomentano “suggerisce che i trapianti potrebbero non essere in grado di correggere un ecosistema ben adattato. Inoltre, come con i trapianti di organi, potremmo aver bisogno di tenere conto di fattori genetici dell’ospite (che hanno un ruolo nel permettere a specifici microbi intestinali di colonizzare). Utilizzare i donatori familiari è uno dei  metodi; un altro è l’uso di trapianti autologhi di feci precedentemente accantonate, che ora è in fase di sperimentazione nei pazienti ad alto rischio prima del trapianto di midollo osseo. L’ autotrapianto di microbi avviene già in chirurgia bariatrica e potrebbe essere responsabile dei rapidi benefici clinici del procedimento”.

"Abbiamo urgente bisogno di più esperienza e più centri, di un'adeguata selezione dei donatori, di evidenze a lungo termine di buon valore e di procedure di controllo per poter fornire pareri sensati", aggiungono Knight e Spector.

Gli autori ammoniscono che, in mancanza di questi elementi, i pazienti potrebbero rivolgersi a metodi fai-da-te, dalle conseguenze imprevedibili.

Leggi l’editoriale sul BMJ


Pubblicato il: 29 ottobre 2015

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