.png)
Il Potenziamento della performance cerebrale tra problemi Etici e Regolatori - Il Potenziamento della performance cerebrale tra problemi Etici e Regolatori
Il Potenziamento della performance cerebrale tra problemi Etici e Regolatori
La storia dell’uomo può essere raccontata anche attraverso la tensione al superamento dei propri limiti, a spostare sempre più in là il confine tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Molte delle acquisizioni che hanno cambiato per sempre il modo di vivere ed interpretare il mondo, dalla capacità di costruire utensili, all’invenzione della stampa, a Internet, alle biotecnologie, rispondono, in qualche modo a questa esigenza di andare oltre. In questi ultimi anni, però, il desiderio di migliorare la condizione umana ha assunto delle forme diverse che richiedono una riflessione più profonda sia di tipo etico che scientifico-regolatorio. Non si assiste più, infatti, come accaduto sino ad un passato recente, alla ricerca di modalità per piegare l’ambiente alla volontà e alle necessità dell’uomo, vale a dire ciò che è comunemente riconosciuto come “progresso”, ma al tentativo di adattare l’uomo-nuovo all’”ambiente-uomo” (uomo su uomo) agendo direttamente sul cervello per realizzare il desiderio, universale, di migliorare davvero e una volta per tutte le proprie performances cognitive. Intervenire sul corpo fisico e psichico per realizzare il sogno antico di avere prestazioni superiori, essere più abili, più efficienti, prolungare la vita e avere un fine vita sempre “intelligente”.
Si discute da tempo su questi temi in tutte le arene, culturali, politiche, scientifiche in cui si estrinseca l’agire umano. Come non ricordare il film cult “Blade Runner”, in cui erano rappresentati i Nexus-6: mutanti programmati per avere prestazioni superiori; o le ricerche sull’intelligenza artificiale, o le applicazioni molto attese delle nanotecnologie. Sul potenziamento del cervello, noto anche come Neuro-Enhancement (NE), è attualmente in corso un dibattito a livello globale perché le implicazioni che ne derivano producono problemi non ancora risolvibili. Da un lato, infatti, sono disponibili trattamenti farmacologici in grado di migliorare sintomi di patologie esistenti, come il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), che aumentando i livelli di attenzione, incidono sull’attività cognitiva in modo positivo; dall’altro, vi è il ricorso da parte di persone sane a trattamenti come ad esempio psicostimolanti o antidepressivi, per aumentare le performances professionali, sportive e anche sociali. Nel primo caso, l’impiego dei farmaci per la cura dell’iperattività, quando la diagnosi è certa e la terapia ben fatta, cambia la vita di tanti bambini consentendogli di raggiungere traguardi che altrimenti sarebbero stati preclusi: la laurea, la patente, una vita sociale, familiare e lavorativa normale. Particolare rilievo nei risultati ottenibili riveste la precocità del trattamento, la sua somministrazione durante il periodo di neurosviluppo. Se l’accesso alla cura avviene in modo tardivo, molte tappe, come ad esempio i livelli di scolarità raggiungibili, potrebbero essere precluse, compromettendo la capacità del bambino o dell’adolescente di autodeterminarsi nel futuro secondo le proprie attitudini.
Nel secondo caso, invece, il NE riguarda persone sane che decidono di esporsi a rischi, di effetti collaterali e dipendenze, prescindendo dal classico concetto di cura. Ciò apre problemi di natura etica, scientifica e regolatoria. Per ora, l’efficacia nelle persone sane è stata dimostrata solo in situazioni sperimentali estremamente controllate. Si tratta dunque di valutare, in base allo stato attuale delle conoscenze, quale sia il reale profilo beneficio-rischio e quale il vero valore aggiunto. Sono problemi da affrontare con un orizzonte ampio che preveda l’armonizzazione della definizione di NE, ancora eterogenea, delle popolazioni da studiare, della misurazione dell’efficacia e della durata nel tempo dell’azione terapeutica. Bisogna convergere sugli endpoints, sull’impatto sulla qualità di vita e acquisire conoscenze su cosa accade quando – ad esempio – si dovesse interrompere per qualunque ragione l’assunzione di tali sostanze. E’ necessario infine, valutare la sicurezza di un loro impiego a lungo termine e ci sono inoltre profonde differenze tra i vari Paesi sul livello di manipolazione chimica ammessa, sulla possibilità di sperimentare su se stessi in modo più o meno estremo. Queste sono le tematiche da affrontare a livello mondiale, per le quali occorre condividere i dati e le conoscenze poiché si tratta di ricerche riservate, almeno da principio, a piccoli numeri di pazienti e solo la capacità di fare network a livello globale consentirà di acquisire risultati rilevanti per successive analisi.
Questo è uno di quegli esempi in cui c’è dunque bisogno di un riposizionamento della Scienza con la S maiuscola all’interno dei processi decisionali regolatori, di destinare maggiori risorse alla ricerca sperimentale e di ottimizzare la nostra capacità di introdurre tempestivamente i risultati della ricerca pre-clinica nella pratica clinica. Siamo permeati da una cultura umanistica che ha portato il nostro Paese a distinguersi nel mondo ma negli ultimi anni ci troviamo di fronte a una deriva culturale che tende ad escludere le conoscenze tecniche dai processi decisionali fino a un deficit di alfabetizzazione scientifica preoccupante che paradossalmente orienta l’opinione pubblica verso una regressione conservatrice dominata da pur comprensibili derive emotive di fronte a processi naturali come la malattia, la scelta di stili di vita o l’atteggiamento nei confronti dei farmaci e delle terapie.
Il neuroenhancement dovrà confrontarsi con un’altra straordinaria capacità del cervello umano che è quella di immaginare cose che ancora non sono reali; la corteccia frontale sa simulare situazioni inesistenti alimentando in questo modo proprio la naturale tensione dell’uomo a spingere in avanti i propri limiti. Ma bisogna stare attenti a non superare quelli imposti dalla fisiologia umana, come la necessità del sonno o del cibo, perché quando si interferisce a lungo con gli hardware fondamentali della biologia si deve essere preparati a pagarne le conseguenze. Stiamo pur sempre parlando del cervello umano, ed è su questo organo, il più delicato e sofisticato del nostro organismo, che in ultima analisi agisce il NE. Non esistono nella storia e nella clinica evidenze di soggetti in enhancement perenne forse perché, citando la celebre frase proprio di Blade Runner: “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo”. Esistono delle riflessioni etiche da affrontare, a partire dal livello di autodeterminazione da garantire in rapporto al livello di assistenza da erogare ed agli eventuali costi per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Esiste il problema del livello di conoscenza necessario per assumere con consapevolezza la decisione informata di sottoporsi a tali terapie anche in assenza di malattia. Sono infine necessarie verifiche per comprendere l’eventuale presenza di interventi manipolatori a fini commerciali. L’eventuale accesso ai NE quando mai arriveranno alla valutazione regolatoria non potrà quindi che essere collegato a Registri di monitoraggio dedicati al fine di rilevare il maggior numero di dati il più omogenei possibile. In psicofarmacologia si tratta di un problema ricorrente poiché esiste una grande variabilità nell’espressione fenomenologica della stessa malattia e manifestazioni sintomatologiche comuni a diverse diagnosi.
Un altro aspetto, non meno importante, riguarda la valutazione di terapie sulle quali non saranno forse a breve disponibili dati certi di sicurezza ed efficacia in volontari sani per periodi di tempo molto lunghi sino a, potenzialmente, decenni che potrebbero rappresentare il periodo del loro utilizzo nella vita reale. Forse è ancora presto per parlarne ma quando dovessero arrivare questo tipo di trattamenti saranno una sfida scientifica e regolatoria mai affrontata prima.
Luca Pani
Pubblicato il: 10 febbraio 2014