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Sfide etiche dell’epidemiologia digitale nell’era dei Big data - Sfide etiche dell’epidemiologia digitale nell’era dei Big data

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Sfide etiche dell’epidemiologia digitale nell’era dei Big data

C'è un forte interesse pubblico per un uso responsabile dei dati che generi conoscenza, promuova l'innovazione e migliori la salute. Tuttavia, i cittadini nutrono legittime preoccupazioni riguardo allo loro privacy. Se non si troverà una soluzione, rischieremo di perdere la fiducia pubblica nella ricerca, e in ultima analisi, dovremo rinunciare agli stessi vantaggi che tale ricerca è in grado di offrire".

Presentando l’ultimo rapporto del Nuffield Council on Bioethics (The collection, linking and use of data in biomedical research and health care: ethical issues), il professor Martin Richards dell'Università di Cambridge esprime con chiarezza l’esigenza di un quadro di riferimento condiviso per affrontare le questioni etiche connesse all’uso dei dati nella ricerca medica e nell’assistenza sanitaria.

I progressi tecnologici e biomedici hanno creato un volume di dati biologici e di salute in rapida e continua crescita, generando una robusta base di conoscenze potenzialmente in grado di migliorare l'assistenza sanitaria grazie ad approcci più efficaci e personalizzati per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle malattie e alla possibilità di rendere più efficiente l’erogazione dei servizi di salute e sostenere l'innovazione e la crescita economica.

Tuttavia il rapporto del Nuffield Council on Bioethics segnala una serie di criticità legate alla trasparenza, alla privacy, al consenso informato, all’accertamento e alla sanzione delle violazioni e degli abusi, che dovrebbero essere adeguatamente affrontate per fare in modo di gestire al meglio e valorizzare questa enorme disponibilità di dati e tutti i cambiamenti che ne deriveranno a livello di conoscenza globale.

Basti pensare che, a partire dal 2012, ogni giorno vengono generati circa 2,5 exabyte (numero che dovrebbe raddoppiare nei prossimi anni) e che un uso improprio di questa enorme mole di dati potrebbe rivelare correlazioni con malattie tali da far ritenere una persona non adatta a determinati lavori piuttosto che ad ottenere determinate condizioni per le assicurazioni sanitarie o sulla vita.

In un articolo (Ethical Challenges of Big Data in Public Health) pubblicato su PLOS Computational Biology, Effy Vayena (Institute of Biomedical Ethics, Università di Zurigo), Marcel Salathé (Center for Infectious Disease Dynamics, Dipartimento di Biologia, Università Penn State, Pennsylvania), Lawrence C. Madoff (International Society for Infectious Diseases and University of Massachusetts Medical School, Worcester) e John S. Brownstein (Boston Children’s Hospital, Harvard Medical School) identificano alcune sfide etiche fondamentali associate alla cosiddetta “epidemiologia digitale” (o “digital disease detection”, DDD) e delineano un quadro di proposte per affrontarle.

L’epidemiologia digitale consiste in una nuova generazione di sistemi di sorveglianza di sanità pubblica che operano attraverso i confini internazionali e integrano i sistemi tradizionali, sfruttando l’accesso diffuso a Internet e la crescita esplosiva dei dispositivi mobili e delle piattaforme di condivisione online, che generano in continuazione grandi quantità di dati contenenti informazioni sulla salute. Utilizzando i dati globali in tempo reale, l’epidemiologia digitale promette ad esempio di rilevare tempestivamente il focolaio di una malattia. Il caso più recente è l’epidemia di Ebola in Africa occidentale del 2014.

I primi elementi sul focolaio emergente sono stati rilevati dai canali di sorveglianza digitale in anticipo rispetto ai rapporti ufficiali. Inoltre, le informazioni raccolte da diverse fonti di dati possono essere utilizzate per scopi epidemiologici che vanno al di là della diagnosi precoce dei focolai della malattia, come ad esempio la valutazione del comportamento e degli atteggiamenti di salute delle persone e la farmacovigilanza.
L’epidemiologia digitale – scrivono Vayena e colleghi – si colloca al crocevia tra le informazioni personali, la salute pubblica e le tecnologie dell'informazione, nell’ambiente dei cosiddetti big data, insiemi di dati molto grandi, complessi e versatili che sono in costante evoluzione per formato e velocità. Questo ambiente dinamico genera varie sfide etiche che riguardano non solo il valore della salute per gli individui e le società, ma anche i diritti individuali e altri aspetti di ordine morale.

Gli Autori ne individuano tre in particolare:

A. sensibilità al contesto

Come si concilia l’utilizzo dei big data per il bene comune con i diritti e le libertà individuali (es. diritto alla privacy)? Qual è il confine fra diritti individuali e bene comune? È evidente – scrivono gli Autori – che esiste una notevole differenza tra l’uso di dati (ad esempio quelli dei social network) per promuovere la salute e il benessere dei cittadini o per finalità aziendali quali la pubblicità. Ovviamente tali differenze hanno importanti implicazioni etiche. Ad esempio, un trattamento di dati che non sarebbe accettabile a scopi commerciali, potrebbe essere permesso per fini di salute pubblica. Inoltre, chi detiene dati commerciali potrebbe essere tenuto a renderli disponibili per l’epidemiologia digitale.

Per far ciò però – avvertono gli Autori – occorrerà realizzare norme e modalità specifiche per la gestione di dati provenienti da una vasta gamma di fonti (auto-tracciatura, scienziati cittadini, reti sociali, volontari o altri contesti di partecipazione), in quanto è improbabile che il quadro normativo attuale possa essere adeguato al nuovo complesso scenario mondiale. Un esempio di attività globale è il progetto United Nations Global Pulse, che si basa sul concetto filantropico di condivisione dei dati per il bene pubblico mediante partnership pubblico-privato. Questi dati comuni, gestiti secondo regole chiare sulla privacy e i codici di condotta, possono influenzare profondamente la sorveglianza delle malattie e, più in generale, la ricerca sulla salute pubblica.

Un altro aspetto rilevante riguarda quella che gli Autori definiscono “giustizia globale”. Storicamente, gli strumenti dedicati alla salute sono stati progettati e utilizzati prevalentemente per gli abitanti dei paesi più ricchi. I progetti di epidemiologia digitale, che permettono l’accesso e la condivisione di dati globali, sono spesso meno costosi rispetto agli approcci tradizionali e potrebbero quindi rappresentare un passo avanti nella diagnosi precoce delle malattie, con beneficio reale per le popolazioni di tutto il mondo. Tuttavia, tale sfida comporta importanti implicazioni etiche. Richiede infatti non solo l’impegno di individuare le malattie nelle parti più povere del mondo, ma anche l’adozione di misure per garantire il rispetto dei diritti e degli interessi delle persone di queste regioni e comunità nella raccolta e nel trattamento dei dati (esistono standard diversi per la tutela della privacy in relazione alle diverse culture o si possono ammettere alcuni nuclei minimi di norme uniformi?).

B. Nesso tra etica e metodologia

Una solida metodologia scientifica – scrivono gli Autori – comporta la validazione degli algoritmi, la comprensione dei confondenti, sistemi di filtro di dati rumorosi, la gestione dei bias, la selezione di opportuni flussi di dati e così via. Alcuni esperti del settore hanno espresso scetticismo sul ruolo che può svolgere l’epidemiologia digitale nel campo della salute pubblica. Nel 2013, quando Google Flu Trends sovrastimò i livelli di prevalenza dell’influenza negli Stati Uniti, emersero ulteriori preoccupazioni sulla sensibilità della metodologia utilizzata per analizzare il comportamento degli utenti.

La robustezza metodologica – affermano Vajena e colleghi – è una questione etica, non solo scientifica. Non solo perché si rischia di sprecare risorse limitate per produrre risultati deludenti o perché la fiducia nei risultati scientifici sarebbe minata da risultati fuorvianti o inesatti.

Esiste anche un rischio di danni a persone, aziende e intere comunità: una regione turistica ingiustamente identificata come sede del focolaio di una malattia; la stigmatizzazione di una comunità, che può influenzare negativamente i singoli membri; e persino la violazione delle libertà individuali, come la libera circolazione di un individuo identificato erroneamente come portatore di una particolare malattia.

Anche la provenienza dei dati necessita di una metodologia etica – scrivono gli Autori – Gli studi di epidemiologia digitale attualmente pubblicati e altre iniziative in corso hanno utilizzato prevalentemente dati di pubblico dominio (es. Twitter) o per i quali i titolari delle informazioni abbiano espresso il loro esplicito consenso per l’uso nella sorveglianza delle malattie (flunearyou.org). Se, in linea di principio, i dati di dominio pubblico sono aperti e possono  essere utilizzati a fini di salute pubblica, cosa costituisca dominio pubblico su Internet è oggetto al momento di vivace dibattito.

Non è chiaro – ad esempio – se gli utenti sanno in che modo i loro dati derivati dalle interazioni sui social network possano essere utilizzati e chi possa accedervi. Qualsiasi progetto dovrà inevitabilmente considerare questi aspetti e garantire la massima trasparenza.

C. Legittimità

Negli ultimi anni organizzazioni internazionali e non governative e governi nazionali hanno portato avanti il concetto di "sicurezza sanitaria globale" per rafforzare la legittimità di un sistema di sorveglianza delle malattie sia a livello nazionale che globale. L'idea di una sicurezza umana trasversale arriva ora a comprendere anche la salute come protezione dalle malattie infettive e dai rischi connessi, aumentando le responsabilità degli Stati nel fornire garanzie adeguate.

La nuova edizione dell'International Health Regulation, che definisce un quadro giuridico globale per la rilevazione e la risposta alle malattie, sottolinea come sia fondamentale non solo la capacità di comprendere che le malattie si diffondono molto rapidamente in un mondo globalizzato, ma anche la necessità di una notifica tempestiva di qualsiasi potenziale minaccia per la salute pubblica. Il rapporto IHR riconosce inoltre l'importanza di raccogliere le informazioni provenienti da varie fonti, anche non ufficiali o informali, sebbene sia indispensabile verificarle.

Questo nuovo approccio – scrivono gli Autori – rappresenta solo una base di partenza per la legittimazione dell’epidemiologia digitale, che dovrà costruire nel tempo una propria legittimità, migliorando i processi attraverso procedure trasparenti che instaurino un rapporto di fiducia con i soggetti i cui dati sono utilizzati.

Gli approcci partecipativi sono una reale risorsa per la tutela della salute pubblica e i meccanismi di sorveglianza ad essa connessi. Ad esempio, la piattaforma online flunearyou.org consente agli utenti di segnalare e condividere informazioni sulla diffusione dell'influenza nella propria zona di residenza, in maniera rapida e accessibile anche da dispositivi mobili, con il solo vincolo della registrazione al sito.

Questa partecipazione attiva "democratizza" la rete di sorveglianza, tuttavia sono necessarie misure per far sì che i dati raccolti per le finalità dell’epidemiologia digitale, come ad esempio i dati personali e geolocalizzati, non siano impiegati in modo improprio. Inoltre sono necessarie misure di mitigazione e compensazione di costi nei casi in cui le informazioni condivise possano investire direttamente il segnalatore (es. l’allevatore che segnala l'influenza aviaria con il rischio di perdere completamente il suo gregge).

Per autolegittimarsi, l’epidemiologia digitale deve sviluppare meccanismi interni e standard di best practice, tra cui la creazione di comitati di monitoraggio con il mandato concreto di garantire che i rischi e i costi per i singoli e le comunità siano proporzionali ai vantaggi e che eventuali danni cagionati nel trattamento dei dati vengano indennizzati. Tuttavia, questo obiettivo lodevole – concludono gli Autori – non elimina l'obbligo di rispettare i diritti e la dignità individuali.


Pubblicato il: 02 marzo 2015

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