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Farmaci più efficaci, più a lungo. Farmacocinetica solo brevettuale o significativo aumento della biodisponibilità nel tempo?

Di fronte alle difficoltà che caratterizzano la scoperta di nuovi farmaci una fetta considerevole della ricerca si sta spostando verso i metodi che consentono di intervenire sui farmaci già in commercio per potenziarne l’efficacia e estendere la protezione brevettuale.

Prolungare la durata degli effetti di un medicinale all’interno del corpo umano, ad esempio, può consentire al paziente di assumerlo con una frequenza minore e in un dosaggio ridotto, un fattore potenzialmente determinante per l’aderenza alla terapia e la qualità di vita.

Forse stiamo entrando nell’era della farmacocinetica clinica, ovvero dello studio puntuale di ciò che accade ai composti farmaceutici dopo essere entrati in contatto con l’organismo umano, quanto velocemente vengano assorbiti, distribuiti, metabolizzati ed escreti.

Il corpo umano è un campo di battaglia disseminato di insidie molto più numerose di quelle che si nascondono in una provetta. Gli scienziati sono chiamati a fronteggiare quei meccanismi che l’evoluzione ha messo in atto per difendere il nostro organismo, che in molti casi annullano o modificano l’effetto per cui i farmaci sono stati progettati. I protagonisti, dai ricercatori di base alle aziende farmaceutiche, sono gli stessi. A cambiare sono le domande, come rivela un articolo dell’edizione europea del Wall Street Journal.

L’albumina e le sue applicazioni in oncologia e terapia del diabete

L'albumina, la proteina più abbondante nel plasma umano è anche quella che è stata maggiormente studiata in questi anni. Il suo utilizzo in campo medico era limitato alla somministrazione per via endovenosa di albumina sierica umana (HSA) come sostituto del sangue nel trattamento di pazienti che avevano riportato gravi ustioni o erano affetti da dimagrimento patologico.

A partire dalla metà degli anni 1990 dei gruppi di ricerca hanno iniziato a studiare il potenziale di questa proteina prodotta dalla cellule epatiche come veicolo di trasporto dei farmaci. Gli studi si sono focalizzati su due aspetti principali: la capacità di questa proteina di trasportare il principio attivo al tessuto infiammato o colpito dalla malattia e la sua capacità di estendere l’emivita del farmaco.

L’albumina offre prospettive interessanti perché può essere “fusa” ad un farmaco biologico, mettendo a disposizione le sue caratteristiche uniche. Anzitutto la stabilità, che le permette di non degradarsi rapidamente ed una dimensione considerevole che ritarda il filtraggio da parte dei reni.

Come riporta Kratz la lunga emivita dell’albumina, cioè il tempo necessario per la metabolizzazione della metà dose iniziale del farmaco da parte del corpo, pari a circa 19 giorni, ha consentito di migliorare il profilo farmacocinetico e la conformità dell’insulina utilizzata nel trattamento del diabete.

Il tratto distintivo del trattamento del diabete” afferma Kratz “è la diminuzione dei livelli ematici del glucosio aumentati a causa dell’adattamento ad una dieta a basso contenuto di zuccheri e grassi saturi […] e l’assunzione di farmaci antidiabetici orali che sostituiscano l’insulina o ne incrementino la produzione di insulina da parte del corpo”.

A causa delle caratteristiche specifiche del diabete un’insulina a lunga durata d’azione è una soluzione ideale, certamente preferibile secondo Kratz alla diminuzione e normalizzazione del livello di glucosio per un periodo di 24 ore. La predisposizione dell’albumina a creare legami ha portato ad un’importante progresso. Si è capito che si poteva associare l’insulina a un’acido grasso, che a sua volta si sarebbe successivamente legato ai 5-7 siti di legame presenti nella molecola di HSA.

Un farmaco iniettabile per il diabete di tipo 1 approvato di recente dall’FDA si basa sul meccanismo di fusione di una proteina di uso terapeutico con l’albumina. Il risultato è l’estensione della durata dell’emivita del farmaco a 5 giorni, il beneficio per i pazienti è la possibilità di poter effettuare una sola iniezione a settimana invece che tutti i giorni.

In oncologia sono diversi i farmaci che hanno sfruttato le proprietà dell’albumina. Legando alcuni principi attivi a particelle di HSA se ne facilità il trasporto attraverso l’endotelio vascolare e l’accumulo nella zona maggiormente interessata dal tumore, grazie ai recettori dell’HSA “gp60”. Un’operazione di killeraggio mirato in scala nanometrica.

Il polimero ideale del Prof. Davis

Alla fine degli anni ’60 un professore di Biochimica della Rutgers University iniziò a studiare una metodologia per sviluppare una procedura per utilizzare alcune proteine bioattive per scopi terapeutici. “Ciò accadeva in un momentoscrive Davis “in cui non erano disponibili proteine derivate dall’uomo ottenute attraverso la tecnica del DNA ricombinante e […] la maggior parte delle proteine estranee dava origine a risposte immunologiche negative se iniettata nell'uomo”.

Leggendo un articolo su una rivista scientifica Davis apprese che alcuni medici iniettavano una soluzione contenente un copolimero a blocchi di polietilene glicole e polipropilene glicole nel sangue dei pazienti sottoposti a chirurgia dei grossi vasi per evitare la formazione di embolie lipidiche.

La sua ricerca si concentrò su questa classe sino a identificare nel polietilenglicole (PEG), il polimero ideale. Questo composto sintetico è solubile in vari solventi organici e soluzioni acquose e precipita in maniera rapida al contatto con altri solventi, caratteristiche che ne facilitano l’utilizzo e il recupero.

La “PEGilazione” è stata impiegata ampiamente in farmaceutica. Il legame tra il polietilenglicole e una proteina terapeutica aumenta le dimensioni di una molecola e ne rallenta l’espulsione da parte dei reni, estendendo l’emivita del farmaco. Anche in questo caso, quindi, la prolungata permanenza della molecola all’interno dell’organismo si traduce in una durata maggiore dell’efficacia e in una diminuzione della frequenza di somministrazione per il paziente.

L’intuizione del Prof. Davis ha posto le basi per lo sviluppo di una industria che vale diversi miliardi di dollari. Di recente la PEGilazione ha sollevato preoccupazioni, legate al possibile accumulo del polietilenglicole nell’organismo, tanto da indurre l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) a sollecitare un approfondimento e nuovi studi in proposito, in particolare nella popolazione pediatrica.

Nuovi orizzonti

La ricerca nel campo della protein therapy continua, con l’obiettivo di cercare alternative più sicure ed efficaci. Recentemente un gruppo di studiosi della Technical University di Monaco di Baviera ha annunciato l’identificazione di un metodo alternativo alla PEGilazione. La scoperta, un brevetto europeo, prevede l'uso di sequenze casuali di una bobina polipeptidica che contiene gli aminoacidi prolina, serina e alanina (PAS), che migliora la stabilità delle proteine terapeutiche con un’azione del tutto simile a quella del PEG.

La PASilazione avrebbe però un considerevole vantaggio, quello di utilizzare un composto biologico, ricavato da un microbo, e biodegradabile. Si eviterebbe così, a parità di efficacia, l’accumulazione nell’organismo.

In California un’altra tecnologia capace di fondere l’ormone peptidico GLP-2 con una catena di amminoacidi è allo studio di scienziati e aziende. Nel mirino dei ricercatori una durata di emivita del farmaco quattro volte superiore a quella normalmente osservata.

La corsa della ricerca continua, ma la sua traiettoria potrebbe essere leggermente modificata. Continueremo a ideare nuove armi contro le malattie, ma progressivamente dedicheremo più risorse al perfezionamento di quelle già in nostro possesso, grazie a nuovi strumenti della biologia.


Pubblicato il: 12 maggio 2014

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