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Il peso delle parole per le parole che… pesano
Un recente editoriale pubblicato su The Lancet Oncology offre lo spunto per tornare a parlare del tema della presa in carico del paziente nel fine-vita. Tornare a parlarne, sì, perché l’aspetto evidenziato dall’articolo è proprio una certa riluttanza dei media e dell’opinione pubblica in generale ad affrontare tutto ciò che non si configura come un “happy ending”. E allora appare importante provare a dare il giusto nome alle cose, a collocarle obiettivamente in un evolvere naturale degli eventi e perché no, magari a rivalutare il fine vita come un’opportunità, o quantomeno rivestire questo momento della sua giusta dignità.
La buona notizia è che le statistiche mondiali sui tassi di sopravvivenza al cancro sono ovunque in aumento, anche in Italia, a testimonianza di un incessante progresso della medicina e della prevenzione. Questo grazie alla disponibilità di tecniche di screening accurate e a farmaci sempre più innovativi, in grado spesso di arrestare o ritardare il decorso della malattia, anche di eradicarla. Non è un caso che gli antitumorali siano infatti i medicinali a maggior impatto per consumi e spesa negli ultimi anni. Per contro, anche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, ci si aspetta un aumento altrettanto progressivo dell’incidenza di casi di cancro nella popolazione, che condizionerà sempre più le vite di chi ne è colpito e dei suoi familiari.
Il primo passo è parlarne, forse ancor prima “sdoganare” il termine stesso “cancro” o “tumore” che solo fino a pochi anni fa era allusivamente richiamato con metafore indirette (ma questo vale per molte altre malattie dalle previsioni di sviluppo negative). Se le statistiche ci dicono che di cancro si può sopravvivere o che ci si può ammalare con conseguenze croniche, è opportuno innanzi tutto non stigmatizzare il momento della diagnosi, commenta l’editorialista del The Lancet. Perché così facendo si corre il rischio di isolare colui/colei che da quel momento in poi è suo malgrado passato nella condizione di “malato” e così pure i suoi parenti che dovranno assisterlo in una fase o potenzialmente per il resto della sua vita. Tutto ciò non aiuta a riconoscere e ad accettare che il cancro è una patologia ampiamente diffusa e limita la consapevolezza di come poter convivere con essa e soprattutto dopo di essa.
Al contrario, i mezzi di comunicazione indulgono piuttosto sulle storie di chi al cancro è sopravvissuto, ma informano meno su cosa significa reintegrarsi nella propria vita o nel lavoro al termine dei cicli di cure mediche e ancor meno su cosa accade se la prognosi è invece più infausta. Per questo ci sono le associazioni dei pazienti, i forum, i gruppi di sostegno, ma sarebbe più giusto che tali tematiche trovassero maggiore spazio nelle pagine dei quotidiani, nei programmi televisivi, nelle forme più routinarie della fabbricazione della consapevolezza pubblica, con messaggi magari più mediati ma pur sempre chiari, che non alludano alla malattia ma che la trattino in modo esplicito come una componente della vita.
Il fine ultimo infatti è creare una fitta rete di supporto che si sviluppi dalla corretta informazione in tutti i contesti: da quello ospedaliero e assistenziale, a quello sociale e culturale. Un modello di comunicazione continua in cui tutti gli attori coinvolti possano dialogare in modo aperto e sereno per mettere il paziente nella condizione di poter decidere delle proprie cure e sostenerlo in questo percorso, anche e soprattutto in quello più delicato del fine-vita.
Può fare l’effetto di un pugno nello stomaco discutere della propria morte e pianificare “il dopo”, eppure nel Regno Unito stanno nascendo locali in cui davanti ad un caffè si dispone delle proprie ultime volontà con personale specializzato in questo. Al pari delle figure che accompagnano le donne nelle ultime fasi della gravidanza e una volta divenute neo-mamme, sta emergendo nel ruolo di “doula” un discreto numero di persone che affiancano il paziente e chi a lui presta le necessarie cure nei momenti finali di una malattia terminale. Sono professionisti non ancora riconosciuti dai sistemi sanitari nazionali eppure presenti nelle strutture assistenziali. Provengono spesso da esperienze personali dirette con il sostegno al fine-vita e riconoscono l’importanza di un orientamento o anche solo di un conforto da dare alla persona interessata così come i suoi familiari in un momento tanto delicato, che spesso, anche solo per ragioni di tempo o in virtù di un ruolo, il personale medico non ha modo di offrire.
E’ bene quindi intanto rompere il silenzio e infrangere qualche tabù sul tema del fine-vita. Un passaggio che non deve essere considerato il limite della medicina, ma un’occasione per sviluppare terapie in grado di sostenere e rispettare il paziente fino alla fine con un approccio il più possibile integrato e multi-disciplinare che abbracci scienza, informazione, politiche sociali ed assistenziali, volontariato in un processo di cura simultanea. Per garantire al malato il controllo e la consapevolezza della propria vita e tutta la dignità che merita anche e soprattutto quando cura non sempre è sinonimo di guarigione.
L'Italia è stato il primo Paese in Europa a sancire questo diritto e a stabilire l’accesso alle cure palliative con l’introduzione di un’apposita legge, la n. 38 del 2010, che individua un percorso di cure individuale per il paziente e il suo nucleo familiare e l’istituzione di una rete assistenziale per garantire sul territorio il necessario supporto specializzato. La legge e le successive integrazioni costituiscono un importante impianto normativo che riconosce l’importanza di favorire un’individuazione anticipata del malato eleggibile alle cure palliative così come alla terapia del dolore, con l’attivazione di percorsi proattivi di assistenza. Ciò per garantirgli - sia esso adulto, bambino o anziano - tutto il sostegno clinico e il conforto sociale di cui ha bisogno assecondando quanto più possibile i suoi bisogni.
Perché quanto disposto dalla normativa possa trovare applicazione è tuttavia fondamentale anche nel nostro Paese promuovere una più ampia conoscenza innanzi tutto del quadro legislativo stesso, che ovviamente è il passo successivo ad una presa di consapevolezza su cosa comporti una diagnosi di patologia degenerativa cronica in stato avanzato, oncologica o meno. La legge inserisce le cure palliative e la terapia del dolore fra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e ciò ha una portata culturale significativa, perché non solo identifica i bisogni fisici del paziente ma anche e soprattutto quelli psicologici, definendo il passaggio da cura come rimedio a cura come attenzione.
Tempestività e flessibilità saranno le chiavi per offrire un’assistenza puntuale, centrata sui desideri del malato e sul rispetto della sua persona, che sia in grado di essere prestata in qualsiasi contesto: a casa, in ospedale o nelle strutture residenziali.
Dove il malato sia sempre al centro e la sua presa in carico responsabile e lo sguardo dell'operatore, strumento di cura e dignità.
Leggi l’editoriale su The Lancet Oncology
Consulta la sezione dedicata alle cure palliative e alla terapia del dolore sul sito del Ministero della Salute
Pubblicato il: 17 marzo 2016