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Social media e condivisione dei dati: pro e contro di un paziente sempre più “empowered” - Social media e condivisione dei dati: pro e contro di un paziente sempre più “empowered”
Social media e condivisione dei dati: pro e contro di un paziente sempre più “empowered”
Un interessante editoriale di The Lancet Oncology del numero di maggio scorso affronta il tema della ricerca clinica nell'era dei social media, in particolare il ruolo dei pazienti che attraverso i network e la condivisione di dati ed esperienze acquisiscono sempre maggiore conoscenza e consapevolezza degli aspetti legati alla loro salute, nell'ottica di quello che è chiamato appunto l' “empowerment” del paziente. Ci si chiede però se questa pro-attività nello scambio di informazioni sulla rete abbia o meno dei vantaggi, soprattutto in termini di riservatezza dei dati dei trial, proprio mentre il dibattito sulla trasparenza delle sperimentazioni cliniche si fa sempre più animato.
In alcuni casi il ricorso al crowdsourcing, ovvero alla consultazione e ai contributi offerti dalla “folla” on line possono essere d’aiuto nella definizione degli studi: l'editoriale del Lancet richiama infatti proprio un caso in cui per una sperimentazione di fase due per il trattamento del cancro alla prostata i ricercatori hanno volutamente coinvolto il popolo della rete per il reclutamento e per migliorarne le condizioni di accesso. Sulla rete e sui social media poi si fa gruppo, e ciò avvantaggia nella capacità di reclutare più agevolmente i pazienti in un trial. Questi ultimi possono inoltre condividere in maniera anonima e immediata le loro esperienze e trovare un supporto on line sicuro per confrontarsi.
Per contro, quello della ricerca clinica è proprio il contesto in cui lo scambio di informazioni potrebbe rivelarsi controproducente, perché i commenti forniti reciprocamente da paziente a paziente rischiano di essere fuorvianti e confondenti, benché non intenzionalmente. Ma ancor più, c'è il pericolo che i pazienti rivelino in rete particolari della ricerca che dovrebbero essere tenuti sotto segreto per non inficiare lo studio stesso. L'uso improprio dei social media, continua l'editoriale, non è solo legato al comportamento dei pazienti perché gli stessi clinici possono rivelare dati personali relativi ai loro assistiti: è quanto sostiene uno studio sull'uso di Twitter da parte di alcuni clinici svedesi che ha messo in evidenza come il 2% dei tweet diffusi fosse “non professionale” con una minoranza minima ma significativa di informazioni diffuse che in qualche modo hanno violato la privacy dei pazienti.
Nella definizione di uno studio, soprattutto in campo oncologico, sarebbe quindi opportuno considerare in anticipo il tipo di coinvolgimento dei pazienti sulla rete: a questi ultimi andrebbe poi fatta un'adeguata formazione per istruirli sui dati che è possibile o meno condividere sui social network. Nell'era in cui una eccessiva condivisione di dati diventa sempre più “normale”, la tutela della privacy dei pazienti si fa quanto mai cruciale.
E' indubbio ad ogni modo che i social media costituiscano ormai una fonte di dati e una porta d'accesso agli stessi privilegiata, non solo in ambito di sperimentazione clinica ma anche per la farmacovigilanza. Uno studio americano recentemente pubblicato su Drug Safety, ad esempio, ha analizzato il ruolo di Twitter nella diffusione di dati su reazioni avverse ai farmaci correlando i post dei pazienti su possibili effetti indesiderati con le informazioni di sicurezza sui medesimi medicinali da loro citati emesse nello stesso periodo dalla Food and Drug Administration. Si tratta di un lavoro che necessita certamente di approfondimenti e di alcuni automatismi per la corretta interpretazione dei dati; sta di fatto che su un totale di 60.000 tweet esaminati oltre 4.400 erano effettivamente riconducibili alle segnalazioni riportate nella rete di farmacovigilanza dell'ente regolatorio statunitense. Non da meno, l'uso di hashtags e post indirizzati direttamente alle Agenzie regolatorie evidenziano una consapevolezza dei pazienti che non va sottovalutata e che bisognerebbe indirizzare al meglio per educarli anche in questo contesto ad usufruire maggiormente della possibilità di segnalare sospette reazioni avverse on line, ma piuttosto tramite i canali istituzionali messi a loro disposizione dalla rete dei Responsabili di farmacovigilanza sul territorio o direttamente dalle Autorità regolatorie.
Leggi l'editoriale di The Lancet Oncology di maggio 2014
Leggi lo studio sull'impiego di Twitter nella sorveglianza post-marketing dei medicinali
Pubblicato il: 04 giugno 2014